di Paolo Wilhelm
No, non chiamateli canguri. Loro sono i wallabies, che in realtà è un quasi canguro. Cioè, a dirla tutta, sono dei canguri fatti e finiti: sono identici, mangiano le stesse cose, hanno le stesse abitudini e – ovviamente – saltano pure loro, ma sono decisamente più piccoli dei loro parenti più famosi. E non è dato sapere se sono altrettanto bravi nel tirare di boxe. Ma questa è un’altra storia. Anche perché i wallabies di cui parliamo noi hanno gambe e braccia, usano indossare una maglia gialla, pantaloncini verdi e inseguire una palla ovale su un prato. Anche perché sono tra i migliori al mondo a fare queste cose. E poi i kangaroos ci sono, esistono e pure loro giocano a rugby, ma quello a 13, e non sia mai mischiare le due cose. In Australia poi dove la League (la versione a 13 di questo sport, mentre quella a 15 è la Union) è una cosa sacra.
Già, l’Australia. Per chi ama il rugby, è sinonimo di equilibrio e spettacolo. Buona potenza negli avanti e quindi nel pacchetto di mischia, ma soprattutto tecnica e velocità a partire dalla linea mediana in poi, con i tre-quarti che sanno unire forza e rapidità come pochi altri. Rispetto ai rivali neozelandesi riescono spesso a trovare un punto di equilibrio un po’ più cinico: che tradotto in italiano significa che se in un dato momento è meglio tirare i remi in barca e traccheggiare, beh, gli australiani lo fanno. Gli all-blacks invece… Ciononostante spesso vedere giocare l’Australia è un vero piacere. E non sarà un caso se i tuttineri hanno vinto un solo mondiale (il primo) e poi hanno rimediato una serie lunghissima di delusioni e figuracce mentre i loro cugini oceanici hanno portata a casa due titoli iridati (più qualche finale persa). Come gioca l’Australia attuale? Bene, a tratti benissimo. Ma, per fortuna degli avversari, la luce si spegne improvvisamente con cadenza troppo frequente. Beh, va da sé che l’aggettivo troppo vale se si è nati a Sydney e dintorni. Magari capitasse anche sabato…
Wallabies. Che poi hanno seriamente rischiato di chiamarsi rabbits, conigli. Perché nel 1908, alla partenza del primo tour verso il Regno Unito, qualcuno cercò di affibbiargli quel nomignolo, rigettato subito però dai giocatori. In quello stesso tour un nuovo tentativo: berties, da Bertie, un serpente che si erano portati dietro come mascotte. Ma anche qui nulla: che la morte del rettile durante quello stesso viaggio (in Galles, se vogliamo essere precisi) abbia influito?
Si è quindi scelto wallabies, sempre durante quel viaggio. Ma per lungo tempo si poterono fregiare di questo nominativo solo i convocati che andavano a giocare all’estero, mentre chi metteva la maglia della nazionale australiana per le partite in casa era al massimo un Internationals. Poi piano piano questa differenza è sparita.
L’Australia dunque. Difficilissimo, quasi impossibile, che l’Italia possa sconfiggere questa montagna, anche se le prove della nostra nazionale contro i down under sono spesso state più che positive. Sconfitte quasi sempre più che onorevoli, anche se sempre di sconfitte si parla (14 su 14 incontri). E il ct azzurro Mallett per scalare questa benedetta montagna – un po’ per necessità e un po’ per scelta tecnica – punta su parecchie forze fresche e freschissime. Se all’ala infatti troviamo ancora il golden boy Tommaso Benvenuti, tra l’altro tra i meno peggio di Verona, come mediano di mischia fa il suo debutto assoluto il giovanissimo Edoardo Gori. Che di Benvenuti sarebbe anche compagno di squadra a Treviso, ma il condizionale è d’obbligo, visto che mentre il primo gioca spesso e pure da titolare il secondo invece il campo lo vede con il binocolo. Eppure il ragazzo di talento ne ha da vendere.
Forze fresche anche tra i tre-quarti con Sgarbi e in terza linea con Paul Derbyshire, ragazzo dal nome inglesissimo ma nato a Cecina. Praticamente giocherà in casa. In prima linea parte titolare invece l’esperto Lo Cicero, alla sua prima presenza dal primo minuto da due anni a questa parte: il pilone aveva avuto da ridire con il ct e per parecchio è stato tenuto a bagnomaria, ma le sue prestazioni nel Racing di Parigi non potevano passare inosservate. Sulla carta una bella squadra con qualche dubbio sulla scelta di Orquera all’apertura, ma l’oriundo argentino quando è entrato in campo a Verona non ha sfigurato. Certo, lasciare Bocchino in panchina… ma tant’è, chi vivrà vedrà.
E anche l’Australia ha le sue gatte da pelare: arriva da due sconfitte consecutive (Inghilterra e Munster) e non avrà il giovanissimo e talentuoso James o’Connor, uno che ha debuttato da titolare con la maglia gialla proprio con l’Italia una sera di metà giugno del 2009. A Canberra il ragazzino si esibì in una hat-trick, elegante definizione inglese di tripletta: tre mete e una prestazione maiuscola. Insomma uno che con una palla ovale ci è praticamente nato. Anche perché nelle sue vene scorre sangue neozelandese (i genitori), australiano (per diritto di nascita) e sudafricano (i nonni). Un vero predestinato. Tra l’altro con quel popò di genealogie poteva scegliersi una qualunque di queste tre nazionali.
Quindi anche il ct dei wallabies si presenta con diverse novità. Bel tipo tra l’altro Robbie Deans, che sarebbe l’allenatore in questione. Perché non solo è il primo coach straniero che abbia mai guidato la nazionale australiana, ma è pure neozelandese. Come se Francesco Totti si mettesse ad allenare la Lazio. Uno che è stato pure vice-allenatore degli all-blacks: qui siamo oltre la categoria del “tradimento”, e infatti in patria lo chiamano aussie Bob, non esattamente un complimento da quelle parti.
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